23/08/2008

LA RIVOLTA CORRE SUL BLOG. ALLA FINE MUBARAK CADRA' NELLA RETE?

di Silvia Tagliabue
tratto dal Manifesto del 6 Agosto
2008

Hossam el-Hamalawy è uno dei più noti blogger egiziani. Fa parte di quella che è stata definita la blogosfera più vivace del mondo arabo, ovvero del crescente gruppo di attivisti egiziani che hanno iniziato a servirsi delle nuove tecnologie e della rete per raccontare gli scioperi, le rivolte per il pane, i soprusi della polizia e le torture, in un paese dove tutto è controllato dal governo: stampa, magistratura, sindacati.


Proteste a Mahalla. Foto di Nasser Nouri
Il suo blog, arabawy.org, è diventato un punto di riferimento per capire cosa sta succedendo in Egitto, scosso negli ultimi due anni da un’ondata di scioperi senza precedenti. In particolare, coprendo le proteste di Mahalla, dove 27.000 lavoratori dell’industria tessile di stato hanno più volte occupato la fabbrica e bloccato gli impianti, ha scritto che si è trattato di un punto di svolta nella storia del movimento operaio egiziano, tanto che si può parlare di un periodo "prima di Mahalla" e "dopo Mahalla".
Cosa intendevi?
Noi diciamo sempre che quello che accade a Mahalla finisce per avere un effetto domino su tutta la realtà operaia in Egitto. E in effetti nei nove mesi trascorsi tra il primo sciopero di massa nel dicembre 2006 e il secondo nel settembre 2007, il ricorso allo sciopero nel paese è triplicato e si è affermato come principale strumento di lotta.
E ciò rappresenta una novità in Egitto?
In un certo senso sì. Con la salita al potere di Nasser e la rivoluzione socialista dei primi anni Sessanta, i lavoratori organizzavano grandi sit-ins, piuttosto che scioperi. Le industrie erano state nazionalizzate e c’era questa idea che se scioperavi facevi un danno a te stesso, perché la produzione apparteneva alla classe operaia. La solita retorica populista dietro alla quale si nascondeva un capitalismo di stato. Così, cosa succedeva? La produzione si svolgeva su tre turni di lavoro. Quando gli operai del primo turno staccavano, anziché andare a casa, si fermavano in fabbrica e facevano sit-in, mentre la produzione veniva portata avanti da quelli del secondo turno, e così via. In sostanza era un’occupazione della fabbrica senza che si smettesse di lavorare. Durante i sit-ins delle acciaierie nel 1989 la produzione era addirittura aumentata del 15%! Ma adesso le cose sono cambiate, un po’ perché dall’inizio degli anni Novanta sono state adottate politiche neo liberiste e il settore pubblico è stato in gran parte privatizzato, e un po’ perché i nuovi leaders non sono imbevuti dell’ideologia nazionalista delle generazioni precedenti e quindi, anche nel caso della Misr Spinning di Mahalla, sebbene sia ancora di proprietà dello stato, non c’è stata più alcuna remora a organizzare uno sciopero di massa.
Le motivazioni degli scioperi di Mahalla erano puramente economiche?
Il motivo scatenante era di natura prettamente economica. Il primo ministro Ahmed Nazif aveva promesso entro la fine del 2006 due mesi di premi di produzione che non sono mai arrivati. Tenendo conto che la paga media degli uomini non arriva ai 100 euro al mese e quella delle donne è la metà, a parità d’ore di lavoro, i due mesi di bonus sul salario erano inderogabili.
L’altra richiesta era di portare il sussidio alimentare da 32 a 43 pounds egiziani (più o meno da 4,20€ a 5,20€). Con l’aumento dei prezzi del cibo di questi ultimi mesi la situazione è infatti diventata disperata. Il PAM (Programma Alimentare Mondiale) ha calcolato che tra gennaio e aprile di quest’anno abbiamo avuto un aumento del 50% dei prezzi dei beni di prima necessità. In Egitto chiamiamo il pane aish, che è una parola araba che significa sostentamento. Non è una coincidenza, perché è proprio sul pane che si basa l’alimentazione tipica di una famiglia egiziana. E quando il prezzo del riso e della pasta è salito alle stelle, c’è stato un improvviso aumento della richiesta di pane. Nel giro di pochi giorni non se ne trovava più nei negozi e sono scoppiate delle rivolte. Il governo è stato costretto a mandare l’esercito nelle città per fare aprire nuove panetterie che producessero pane a prezzo calmierato. Ma nel frattempo fra febbraio e maggio ci sono stati ben 17 morti tra la gente in coda fuori dai rivenditori. Ricordo una donna che aveva perso il marito, aggredito e ucciso da un gruppo di ragazzi mentre tornava a casa con la scorta di pane: si disperava, ma diceva anche che la colpa era del governo, che costringe la gente a gesti estremi. Ed è questa la novità del "dopo Mahalla": la situazione economica è gravissima, ma non si tratta solo di scioperi per il pane. Sono scioperi con un’esplicita portata politica, questi.
Portata politica perché la gente protesta contro il governo?
Prima di tutto perché gli scioperi sono di fatto illegali in Egitto, a meno che non vengano convocati dal sindacato ufficiale, che, essendo nelle mani del partito di governo non ha nessun interesse a farlo. E nel momento in cui si decide di partecipare a un’azione illegale, sapendo di andare incontro alla possibilità di essere arrestati, si fa una scelta politica. In secondo luogo, perché le richieste dei lavoratori, finalmente, iniziano ad essere di portata nazionale. Da Mahalla l’ondata di scioperi si è sparsa ad altri settori e si è passati dalle rivendicazioni riguardanti le singole realtà lavorative ad altre più generali. Si è reclamato il diritto di fondare sindacati indipendenti e si è chiesto l’aumento del salario minimo – fermo dal 1984 - a 1200 pounds egiziani (170€). Su YouTube si possono vedere i video delle proteste con la gente che marciava al grido di "non siamo schiavi del Fondo Monetario Internazionale" e bruciava i manifesti che ritraggono Mubarak. Questo era impensabile fino a pochi anni fa. Ricordo quand’ero all’università, negli anni novanta: il movimento di opposizione al regime era totalmente underground e se anche parlavamo di dittatura, non osavamo pronunciare il nome di Mubarak. Era un tabù. Le cose stanno cambiando velocemente. Il governo vanta una crescita economica del 7,1%. E’ una crescita pazzesca, ma la gente non vede nessun miglioramento, anzi, aumenta il numero di poveri, di chi non ce la fa. L’inflazione è al 20%. E i lavoratori iniziano a dire apertamente che è la politica economica del governo ad essere completamente sbagliata.
Tu fai spesso riferimento a YouTube, Flickr, ai blogs…qual è il vero ruolo della rete Internet in questa ondata di scioperi e proteste?
Col suo programma di Information&Technology lanciato nel 1992, il governo si è scavato la fossa da solo. L’idea era di fare dell’Egitto un hub tecnologico in grado di competere con l’India. L’attuale Primo Ministro Ahmed Nazif ha costruito la sua fama attorno a questo Ministero delle Telecomunicazioni che dirigeva, realizzando delle eccezionali infrastrutture e conducendo una campagna per l’accesso pubblico alla rete, con finanziamenti per mantenere i prezzi dei computer bassi. Anche se per ora i dati riportano che solo l’8% della popolazione ha accesso diretto a Internet, il fenomeno è in crescita e c’è una buona parte di giovani della classe media che fa largo uso della rete e delle nuove tecnologie. Da quello che mi risulta, il governo non ha messo nessun blocco all’accesso Internet per non ostacolare gli investimenti esteri. La Cina si può permettere di imporre restrizioni perché è un grandissimo mercato, ma l’Egitto no. Così, fin dall’inizio non c’è stata censura. Probabilmente controllo sì, ma non censura. All’epoca della seconda Intifada sono esplosi i forum di discussione e le mailing lists per scambiarsi informazioni sulle proteste e sulle campagne di boicottaggio dei prodotti americani e israeliani. C’era la sensazione che in rete fosse più sicuro esprimere le proprie idee e scambiarsi opinioni. Era una ventata d’aria fresca. Ma i blogs sono venuti più tardi. Dapprima erano una trentina, in forma diaristica. Le persone raccontavano della propria vita, ma non c’era niente di politico. Il punto di svolta per la blogosfera è stato il 25 maggio 2005, noto come il "mercoledì nero", quando il governo ha mandato una sorta di polizia in borghese che ha letteralmente assalito le giornaliste e le donne scese in piazza per manifestare contro il referendum sugli emendamenti alla costituzione. E’ stato incredibile. Le spogliavano, le aggredivano, tutto alla luce del sole. Ci sono un sacco di foto su Internet. Quel giorno tra la folla c’erano anche dei blogger. Ricordo che non erano attivisti e che anzi alcuni di loro si dichiaravano anti-politici perché, a loro dire, le lotte dei propri genitori negli anni Settanta erano state inutili. Quel giorno sono tornati a casa e hanno iniziato a caricare foto, video e a raccontare cosa era successo. Nei mesi successivi il numero dei blog è arrivato a 1500 e la blogosfera si è radicalizzata attorno alla campagna contro la tortura e nell’organizzare le proteste e gli scioperi. O meglio, gli scioperi sono nati su iniziativa dei lavoratori, guidati da nuovi leaders indipendenti rispetto al sindacato "governativo". Però i blogger hanno aiutato a far passare le informazioni e a coordinare le azioni. Certo, non sono tanti quelli che abitualmente hanno accesso a Internet, ma quanti basta per far circolare le notizie. E poi c’è Twitter.
Twitter?
Twitter è molto utile. Basta che apri la tua pagina online, alla quale corrisponde un numero di telefono. Quando sei in giro, puoi mandare un sms a quel numero e il messaggio viene subito postato lì e chiunque può leggerlo. Ma soprattutto il sistema spedisce automaticamente quel messaggio al cellulare di tutti quelli che si sono iscritti alla tua pagina. Per esempio, mi è capitato di arrivare al luogo stabilito per un raduno, ma di trovarvi la polizia schierata e di spedire un "twit" per avvisare tutti gli altri di cambiare percorso. Ma cosa più importante, se vedi che la polizia prende qualcuno durante una retata pubblichi subito la notizia online e chiunque può sapere che quella tal persona è stata arrestata. Capisci, quella persona non sparirà.
Quando hai cominciato a scrivere un blog? Qual è stato il tuo percorso?
Ho studiato economia e poi ho fatto un master in scienze politiche. Sono sempre stato un attivista della sinistra radicale, fin dall’Università, ma, come ho detto, avevamo pochissime possibilità di venire allo scoperto. Le cose sono cominciate a cambiare con lo scoppio della seconda Intifada nel 2000. Dobbiamo ringraziare i nostri fratelli palestinesi per aver aiutato la sinistra egiziana a uscire da un lungo letargo. Sono stato uno degli organizzatori delle proteste contro la politica filo americana - e quindi filo israeliana - del governo. Ed è stata quella la prima volta che sono stato arrestato e torturato. Ho cominciato a fare il giornalista free-lance per alcune testate locali di lingua inglese e poi per il Los Angeles Times, ma quello che interessa alla maggior parte dei media è la politica ufficiale, le conferenze stampa di palazzo o qualche storia sui faraoni. Mi sentivo sempre più frustrato perché mi sembrava che non venisse data la dovuta copertura agli scioperi e alle repressioni. Finché un giorno, durante un sit-in in sostegno dei magistrati arrestati per aver osato chiedere un’inchiesta sulla validità delle elezioni politiche, la polizia ha fatto una retata e ha preso molti dei miei amici, tra cui Mohamed el-Sharqawi, uno dei blogger più seguiti in Egitto. Per me è stato uno shock…ci sono arrivate notizie delle torture e degli abusi sessuali che subivano in carcere e non riuscivo più a sopportare quello che facevo. Così ho dato le dimissioni dal Los Angeles Times per potermi dedicare a tempo pieno alla sorte dei miei compagni. Era l’estate del 2006 quando ho iniziato il mio blog.
Come è cambiata la tua vita da quando hai smesso di fare il giornalista e sei diventato un blogger?
Guadagno molto meno, questa è la cosa più evidente! Perché da quando ho iniziato a scrivere online le mie idee politiche mi sono bruciato tutti i contatti di lavoro. Ma sono sempre stato un attivista. Quello che voglio è vedere la fine del regime di Mubarak e una rivoluzione che porti i lavoratori al potere. Ora scrivo un blog, ma potrei smettere qualora non fosse più utile in tal senso. Quello che è cambiato è che ciò che faccio e che dico ha molto maggior seguito. Da un lato mi sento più esposto, certamente, ma dall’altro anche la polizia lo è, perché noi raccogliamo e pubblichiamo tutte le prove delle sue violazioni. E questo dovrebbe essere una forma di protezione…almeno un pò. E poi: essere un blogger mi ha fatto innamorare della fotografia, dell’incredibile potere delle immagini. La gente non crede che c’è stato uno sciopero di 27.000 lavoratori, che le donne hanno occupato una fabbrica, che la polizia abusa dei prigionieri, ma tu gli fai vedere le foto e loro sono sorpresi, sono arrabbiati, si sentono coinvolti. Una foto racconta di altri, ma anche di te.
In un blog si segue un’idea diversa di informazione? Cos’è per te l’obiettività?
Il giornalismo è una forma di attivismo e dobbiamo recuperare questa tradizione. E soprattutto in Egitto, sotto la dittatura, fare informazione significa per forza fare attivismo politico, perché cerchi di raccontare una storia mentre tutto intorno a te c’è solo censura; perché i tuoi movimenti sono limitati dalle forze di polizia e ti ritrovi con la macchina fotografica spaccata mentre cerchi di far vedere quello che non si deve vedere. Nei media mainstream ti dicono che devi essere imparziale e parlare con tutte le parti. Ma è una farsa. Prima di tutto perché dietro la pretesa di obiettività si nasconde sempre la tua opinione personale, o quella del tuo editore. E questa passa attraverso il modo in cui nomini le cose o metti le parole tra virgolette: se parli di terrorista o resistente, di gruppo moderato o di "gruppo moderato".
In secondo luogo, essere un giornalista attivista non significa gonfiare i numeri di una manifestazione o dipingere come vittorie le sconfitte dei lavoratori. Questa è spazzatura! Si tratta del modo in cui si osserva quello che accade.
Puoi fare un esempio?
C’è stata, l’anno scorso, un’incredibile occupazione di una fabbrica di abbigliamento, la Mansoura-España. 280 lavoratori di cui il 75% donne, hanno occupato lo stabilimento per due mesi, per impedirne la chiusura. Ogni giorno la direzione mandava la polizia, denunciando le lavoratrici per prostituzione perché passavano le giornate negli stessi locali degli uomini. Ogni giorno qualcuno tentava di intimidirle, perfino i familiari, che volevano tornassero a casa. Stavano sfidando un tabù, rimanendo a dormire in fabbrica coi loro colleghi maschi. Un giorno sono andato là insieme a un fotografo che lavora per un’agenzia importante. Abbiamo visitato la fabbrica, ci siamo fatti spiegare la situazione dalle donne, ma il fotografo le trattava con compassione, come se stessero elemosinando. Poi abbiamo chiesto di poter fare una foto di gruppo e le donne, allegre, si sono raccolte. Al che il fotografo ha detto che no, non potevano ridere nella foto. E loro giù, a tirare dei musi lunghi. Ecco, per me questo non è giornalismo, dove sta l’obiettività? Il fatto è che lui le vedeva così, tristi e perdenti, mentre io no! Io volevo che ridessero, o meglio, volevo che fossero quello che volevano essere! Stavano facendo qualcosa di straordinario: avevano infranto dei tabù e tutto questo per salvare il loro posto di lavoro! Alcune hanno visto sfumare il fidanzamento perché il loro comportamento è stato ritenuto disonorevole. Ma imperterrite, sono andate avanti. Ecco, essere un giornalista militante significa cogliere questa forza, questa resistenza nelle storie che racconti.
E come racconteresti le storie dei tanti, anche del tuo paese, che si imbarcano in viaggi di fortuna per entrare in Europa?
Non si tratta di nascondere la disperazione di chi decide di mollare tutto e pagare delle cifre enormi per attraversare il Mediterraneo su quelle barche fatiscenti. La situazione economica in Egitto è disperata e ci sono molti giovani che vogliono venire in Europa per trovare un lavoro e condizioni di vita migliori. Ma di fronte alla tragedia di questi viaggi, e di tante morti, dove sta l’obiettività giornalistica? Nel rinforzare l’idea di un’orda di poveracci pronta a invadere l’occidente? Nell’alimentare paure e razzismo per nascondere le proprie magagne di politica interna o l’ondata di recessione economica? Io penso che stia nel dire che l’Egitto, pur essendo il secondo paese più finanziato dagli Stati Uniti dopo Israele e pur applicando tutte le ricette del Fondo Monetario Internazionale, vede aumentare la schiera delle famiglie che non riescono neppure a comprarsi il pane.
I viaggi dei migranti continueranno e non ci saranno misure di controllo che li potranno fermare; e nello stesso tempo continuerà il flusso di denaro che va a finanziare la dittatura di Mubarak. Anche in questo caso è questione di dove si rivolge lo sguardo.

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